Premessa. Non state per leggere la recensione di un videogame, né di un film di fantascienza. Aspettare l’apocalisse in un bunker da 300 milioni di semi. In un fortino biologico a prova di bomba, oltre che di terremoto, inondazioni e attacchi terroristici. Costruito per 120 metri all’interno di una montagna a
renaria, 100 metri sul livello del mare per non rischiare innalzamenti delle acque dovuti allo scioglimento dei ghiacciai. Un’idea che va oltre ogni fantasia cinematografica. Stoccare semi da tutto il mondo in un caveau ghiacciato con la mistica missione di garantirsi la possibilità di poter reimpiantare una natura (eventualmente) estinta. Basta atterrare su un’isoletta delle Svalbard, 78esimo parallelo, mille chilometri tondi dal Polo Nord, per toccare con mano (fredda) che è tutto vero. Allo Svalbard Global Seed Vault oltre 100 Paesi hanno seminato le loro riserve per un nuovo futuro: una collezione di 840 mila esemplari, 500 semi per ognuna. Dieci milioni di investimento. La Norvegia ha aperto il portafoglio investendone più della metà e garantendone la costosissima manutenzione.
Dietro c’è anche lo zampino di Bill Gates che ha sostenuto il progetto. Ola Westengen ogni giorno coordina la pioggia di semi che atterra su Longyearbyen. Duemila anime, 3 mila orsi e un’infinità di natura potenziale. La giornata tipo? «Tranquilla e fredda: si entra solo se necessario. A portare nuovi semi o per sistemare le apparecchiature — racconta, barba e capelli al vento —. Le consegne arrivano da tutto il mondo quattro volte l’anno: in tre persone andiamo all’aeroporto,
scortiamo i pacchi e a mano li portiamo nel bunker. Un paio di giorni di lavoro». Ola parla con l’aria di chi, essendo nato calmo, considera la sua vita tra Oslo e le Svalbard la più bella possibile. Essere qui è un privilegio. All’ingresso del bunker, la natura circostante ha già fatto il suo effetto. Silenzio assoluto. Quattro porte di sicurezza sbarrano l’ingresso di un tunnel di 125 metri che porta a tre grotte di 1.200 metri cubici dove i campioni sono conservati 18 gradi sotto zero, una quarantina di metri sotto il ghiaccio. Al minimo di ossigeno. Ola trattiene il pathos e indossa l’elmetto azzurro.
«Chi entra qui dentro si sente in una cattedrale congelata. Dentro sono memorizzati 10 mila anni di storia naturale». Ola scorre il catalogo dei commenti della gente passata da qui. «Nel 2009, il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon disse che la nostra era l’iniziativa più creativa per garantire la sicurezza alimentare nel futuro». Poi arrivò Manuel Barroso, che scolpì nel ghiaccio il suo autografo: «Questo è un giardino dell’Eden ibernato, qui la vita può essere mantenuta in eterno, qualsiasi cosa succeda nel mondo». L’edificio è di proprietà del governo norvegese, ma il contenuto di ogni cassetta di sicurezza appartiene a chi lo ha depositato. Un po’ come in banca. Nell’ufficio di polizia di Longyearbyen due donne ingannano il silenzio davanti a una tazza di tè corretto. Sono collegate con il sistema elettronico del Seed Vault, pronte a muoversi in caso di allarme. Il «New York Times» lo ha soprannominato il «Fort Knox del cibo».
A febbraio compirà sette anni. E anche i freddi nordici dimostrano di sapersi scaldare. «Continuiamo a ricevere semi da tutto il mondo. La nostra più grande vittoria è essere stati più forti degli screzi della geopolitica: Paesi così lontani e così diversi come Stati Uniti, Mongolia, Germania, Myanmar, Corea del Nord o del Sud (per citarne alcuni) hanno scommesso su di noi per la conservazione dei loro preziosi semi» spiega Ola. Fuori la solita incontenibile distesa di neve. Un altro giorno è passato nella cassaforte della biodiversità genetica, l’arca di Noè dei semi è al sicuro. A queste temperature, per almeno altri mille anni.
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